L’Amore ai Tempi della Nuova Era (1)

Pensavo Fosse Amore

 

Una prima, fondamentale distinzione è quella tra affetto e amore. L’affetto caratterizza le relazioni interpersonali, tra genitore e figlio, tra i partner di una coppia, tra due amici e così via. L’affetto si indica anche con l’espressione “ti voglio bene”, che in realtà non significa semplicemente “voglio bene a te”, ma va interpretata come “voglio il tuo bene”. In quest’ultima accezione l’affetto raggiunge il livello più alto, nel senso che la relazione duale prescinde da un interesse egoistico e mette al centro il bene dell’altro. Purtroppo sono situazioni relativamente rare, perché spesso il movente che determina il rapporto affettivo è utilitaristico, comporta cioè il “possesso” dell’altro, e include la pretesa di essere ricambiati affettivamente.

Secondo gli insegnamenti spirituali, l’affetto non è amore, anche se si avvicina all’amore quando vivo effettivamente il bene dell’altro. Allora, come si manifesta l’affetto? Essenzialmente in due modi. Uno di questi è la passione, che si esprime sia sul piano emotivo col possesso della persona amata, sia sul piano sessuale ove può portare a eccessi ed esaurimenti. La passionalità è una condizione emotiva che si manifesta anche in altri modi, ad esempio nel portare avanti un’idea – politica, religiosa, culturale etc. – ma questo aspetto esula da queste considerazioni. L’altro modo in cui si può vivere l’affetto è legato al piacere: piacere sessuale, della compagnia, della condivisione dei più svariati piaceri, come, ad esempio, i viaggi, i cibi raffinati, il cinema o, semplicemente, impigrire insieme.

Tutto questo fa parte della nostra vita quotidiana, è un “diritto al piacere”, che nessuno dovrebbe levarci. Ma non è amore, nel vero senso della parola. Come abbiamo detto, l’affetto è un sentimento che si manifesta nella relazione interpersonale, più frequentemente in quella duale. Ma non solo, perché può superare un interesse materiale ed egoistico e può prescindere da qualunque possesso della persona. Ciò è possibile, ad esempio, nel rapporto maestro-discepolo, che però a volte non è del tutto esente da un interesse utilitaristico, anche se di un livello elevato.

In ogni caso, l’affetto è una modalità relazionale fondamentale per la vita umana. Gli affetti aiutano a crescere, sono determinanti per il sostegno reciproco, anche quando comportano conflittualità, perché il conflitto può essere uno stimolo positivo per la coscienza. Inoltre, gli insegnamenti spirituali ci dicono che le relazioni interpersonali – siano esse affettive o non – sono il modo in cui elaboriamo il nostro karma.

Questo è un fatto importante, che ci fa comprendere l’effetto sottile di certe frustrazioni (indotte o ricevute), che possono sciogliere o creare karma. E’ evidente allora la necessità di chiudere bene una relazione affettiva, ovvero di non lasciare sofferenza, conflitti irrisolti, o palesi ingiustizie, che vanno ad accrescere il “bagaglio” karmico – in termini spirituali: gli accumuli negativi – di chi li ha perpetrati. Non è facile evitare queste conseguenze, perché molti rapporti affettivi sono caratterizzati dall’attaccamento emotivo, uno dei più diffusi “veleni mentali” secondo il Buddha. Ecco perché una relazione può e deve essere vissuta intensamente nella pienezza delle sue espressioni, ma chi la vive deve essere anche pronto a scioglierla, possibilmente con gratitudine e senza rimpianti, quando ne vengono meno i presupposti, cioè quando il rapporto si è concluso per l’allontanamento volontario o la morte di uno dei due attori.

 

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